
Modi di dire piemontesi: “avèj la pecòla”
La pecòla (l’equivalente italiano del termine, pecolla, in verità è un piemontesismo) è una sindrome che non è presente nei trattati di medicina e non è citata nella letteratura medica. Eppure è più diffusa di quanto possa sembrare. Qualcuno si è azzardato, prendendo un granchio colossale, a classificarla tra le patologie dermatologiche (leggendo l’articolo, i Lettori capiranno perché), ma in realtà – più che una malattia – la pecòla è un condizionamento, una remora mentale e psicologica.
In una prima accezione, la pecòla è dunque un freno, un ostacolo che inibisce l’avvio della giornata, che impigrisce il paziente che ne soffre, e lo rende apatico e rinunciatario. I suoi sintomi sono appunto l’apatia e la svogliatezza.
Il significato di questa espressione può diventare più esplicito nel dialogo seguente, intrattenuto tra due massaie affacciate ai balconi di una casa di ringhiera di un quartiere operaio; un dialogo che si sarebbe potuto svolgere a Torino a metà del Novecento:
- Ma cò a l’ha tò omo che ancheuj a l’é nen andàit a travajé?
- Ah, gnente: a l’ha la pecòla!
- La pecòla?
- Si: pòca veuja ’d travajé. Scapa travaj ch’i rivo!
La precisazione della donna, tra disperazione, rassegnazione e realismo, spiega in modo inequivocabile quali sono i sintomi della patologia del marito: una preoccupante pigrizia patologica. La massaia, a proposito dell’accidia e della neghettosità del consorte, avrebbe anche potuto rispondere così:
- Si, la pecòla: la pel dël cul ch’as dëscòla!
Come dire: mio marito ha solo delle balle. La realtà è che si tratta di un pelandrone impenitente, di un incallito scansafatiche, di un indolente irrecuperabile.

In questo altro dialogo, invece, i protagonisti sono uno scolaro di quarta elementare e la sua mamma. Sono le 7 del mattino: la mamma entra nella cameretta del ragazzino per svegliarlo, sicché possa lavarsi, vestirsi e giungere a scuola in tempo utile.
- Gioanin, fà nen tard! A l’é ora d’aussesse.
Passano cinque minuti, ma Giovannino continua a dormire nel suo letto. Sua madre ritorna nella cameretta: questa volta lo scuote bruscamente e gli ordina di alzarsi immediatamente:
- Cò ‘t l’has, Gioanin, sta matin? La pecòla?
E Gioanin, rassegnato, suo malgrado balza giù dal letto strofinandosi gli occhi.
Ma c’é poi un’altro senso, forse ancor più diffuso, in cui dev’essere intesa l’espressione, ed è quando si dice che l’atteggiamento di qualcuno “a fà vnì la pecòla”, ovvero fa venire la “pecolla”. La “pecolla” in tal caso non è che una situazione di insofferenza o di disagio causata dal comportamento urticante e insostenibile di una terza persona, o da un suo modo di fare decisamente insopportabile, che ci crea cioè imbarazzo, noia, irritazione e persino fastidio. Chi è in grado di trasmettere la pecòla è dunque un individuo monotono, barboso e persino soporifero. Meglio, se possibile, starsene alla larga.
Credo che ora sia più chiaro il significato di questo modo di dire, nelle sue diverse sfumature o accezioni: resta senz’altro una delle più colorite ed ironiche espressioni idiomatiche della bella Lingua subalpina.
Sergio Donna



