PRIMO PIANOSTORIE DA RACCONTARE

In un racconto di Rodolfo Neri, l’arrivo nella Torino del 1940 d’un ragazzino di 15 anni

Ora che sono diventato vecchio ed ho quasi esaurito il tempo a mia disposizione in questa bislacca avventura che chiamano “vita”, mi ricordo come se fossero passati solo pochi minuti quando, nel 1940, all’età di 15 anni, dovetti lasciare la mia misera casa in Toscana, a Ponte Buggianese, per scappare a Torino e cercare di sfuggire alla miseria in cui la maggior parte degli italiani erano venuti a ritrovarsi. La guerra era nell’aria, e i miei genitori mi avevano mandato a Torino, a casa di loro amici fraterni, Otello, che riparava biciclette e Brigida semplice casalinga, ma ottima cuoca; questi avevano garantito loro che sarei stato trattato come un figlio.

I due avevano una figlia, Leonice, ragazza molto carina, dai capelli ramati e con occhi scuri, persona assai sensibile e buona; mi fu molto vicino ed anche lei sempre si adoperò per contribuire a cercare di rendere la mia permanenza il più possibile gradevole e leggera e così fu, nonostante tutto. Erano anni molto duri per tutti; oggi riguardando i filmati di quell’epoca, in bianco e nero, mi rendo conto che il mondo allora era davvero caratterizzato da quelle due sole tonalità di colore.

Il nero del regime, visibile ovunque, ormai penetrato fin nei più protetti anfratti delle nostre case ed il bianco della neve di inverni freddissimi, con aggravio di ulteriori sofferenze aggiunte a quelle già presenti, da cui eravamo fin troppo angustiati.

Qualche tempo dopo essere arrivato a Torino, cominciai a guardarmi attorno. Oltre a quella della mia famiglia, con cui ero in incerto e insicuro contatto epistolare, sentivo la mancanza dei vecchi amici e avrei avuto piacere di averne nuovi. Mi mancavano la banda in cui suonavo e le gite sul barcone nel Padule a Fucecchio, dove scappavo non appena mi era concesso, seguendo i cacciatori alla ricerca di anatre da abbattere e poi arrostire.  Pur essendomi bene inserito, amavo restare lunghe ore da solo, immergendomi nei libri che nella casa non facevano difetto.

Brigida, invece, la domenica mattina si levava di buon’ora e, insieme a Leonice, camminando per una buona mezz’ora, giungevano alla chiesa di san Giuseppe Lavoratore, assistevano alla messa, poi Leonice si tratteneva nell’oratorio Rebaudengo insieme ad alcune amiche, mentre sua madre aiutata da altre signore, aiutava a rimettere in ordine le stanze in cui i ragazzi e le ragazze, rigorosamente separati, vi avevano giocato durante la settimana.

Sul finire della mattinata ripercorrevano la strada dirette verso casa, dove giungevano in tempo per servire il semplice pasto a me e Otello, preparato in precedenza. Una domenica mattina fui invitato ad accompagnarle e, sia pure controvoglia, per buona educazione, non volendo fornire loro l’impressione di non gradire la loro compagnia, mi avviai verso la chiesa. La scoperta dell’oratorio fu per me una gradita sorpresa. Restai affascinato dalla figura di don Bosco di cui lessi tutto quanto riuscii a reperire sulla sua vita; focalizzai l’attenzione soprattutto sulla sua capacità di operare miracoli e di avere un contatto diretto con il Divino.

Scoprii che l’oratorio era un crogiolo di persone in continuo movimento, situato in una zona in cui, al di fuori di questo, non si trovava più nulla. A quell’epoca nella periferia cittadina vi erano solo alcune piccole casette, lungo strade in terra battuta che si perdevano fra i campi. Vi incontrai ragazzi di tutte le età, impegnati nelle attività ricreative più varie, ma quando scoprii che vi era anche una banda, la mia felicità raggiunse il culmine. Ovviamente, andai subito a parlare con i responsabili ed entrai a farne parte; potei così di nuovo ricominciare a studiare musica. Presto fui di casa e conobbi un gran numero di giovani, riuscendo così a ricrearmi una situazione simile a quella che avevo al paese e non fui più vinto dalla malinconia, da cui ogni tanto ero stato tormentato.

Tornavo poi verso casa, normalmente di corsa, per non arrivare troppo in ritardo. Nella zona in cui abitavo a quell’epoca molto silenziosa, in Torino vi erano poche case, tutte circondate da ampi prati in cui si poteva correre e giocare a volontà, sfruttando solo le risorse individuali, non esistendo null’altro con cui divertirsi. Otello e Brigida mi avevano consentito di non interrompere gli studi, che continuavo impegnandomi al massimo e riportando ottimi risultati. A volte, al pomeriggio, mi trattenevo all’oratorio, ma anziché giocare, andavo a curiosare tra i vari corsi dove, allievi miei coetanei o poco più grandi di me, avevano la possibilità di imparare un mestiere frequentando vere e proprie lezioni, tenute da anziani artigiani, che, con grande pazienza e perizia, insegnavano ai ragazzi desiderosi di apprendere i trucchi del loro  lavoro. Vi erano infatti una scuola per falegnami, per calzolai, sarti e una piccola officina meccanica. Con la famiglia uscivo di rado, solo una breve passeggiata la domenica; talvolta Otello ci accompagnava fino alla fermata del tram 10, avevo l’occasione di andare fino a Porta Palazzo, nelle cui vicinanze vi è la chiesa di Maria Ausiliatrice, dove Brigida non mancava mai di sostare per una preghiera. Essendomi inserito presto nella banda, partecipai alle uscite con la semplice divisa che Brigida mi aveva amorevolmente confezionato, cucendola di sera con una vecchia macchina da cucire nera, su cui erano incisi a caratteri dorati il nome della marca, il cui ritmico rumore del pedale, accompagnava le mie conversazioni con Otello e Leonice. Quando uscivo per suonare, in genere nelle feste comandate, si arrivava a piedi alla regione Barca o fino alla Consolata, dove insieme ad altri gruppi bandistici, terminavamo splendide giornate con alcune suonate comuni, suscitando l’entusiasmo nel pubblico per l’allegria che riuscivamo a trasmettere.

Leonice mi seguiva per tutto il tragitto, la potevo vedere sempre entusiasta, battere felice le mani al termine di ogni pezzo. Quando i nostri occhi si incrociavano, lei arrossiva, ma ogni volta mi regalava uno splendido sorriso.  Nelle case vi era ben poco; nell’oratorio trovavo attrezzi di ogni genere, così riuscii ben presto a compiere piccole riparazioni.

Ricordo la mia felicità quando, orgoglioso, mostrai alla mia nuova famiglia, i tacchi delle scarpe che, ormai logori, ero riuscito a sostituire conferendo alle scarpe un aspetto pari a quelle nuove. Vissi in  un oasi felice; fuori c’era il  fascismo,  con tutto quello che la Storia ha tramandato. Nella mia innocente incoscienza coglievo marginalmente, ormai palesi, i segnali inquietanti del conflitto in arrivo, ma l’orrore cominciò a concretizzarsi con il varo delle leggi razziali, di cui pochi colsero la loro caratteristica demoniaca e continuarono a vivere tranquilli, adeguandosi a queste come se nulla fosse.

La casa in cui avevo avuto la fortuna di venire ad abitare era composta da due piccoli alloggi adiacenti al piano terreno di un uno dei primi condomini al fondo di corso Sempione, alla periferia di Torino. Otello li aveva uniti e così era riuscito a sistemarmi in una stanzetta, di certo piccola in cui mi trovavo, peraltro, molto bene. La nostra abitazione rimaneva adiacente alla piccola officina in cui Otello riparava le biciclette e le rare moto che allora si vedevano circolare. Era un campione di biliardo e mentre lavorava si divertiva a spiegarmene le regole e non perdeva l’occasione di fornirmi alcuni esempi giocherellando con due bocce poggiate a  terra, iniziandomi ai segreti dell’effetto della palla e alle regole della riflessione, fondamentali per ottenere buoni risultati nel gioco di rimbalzo. Ricordo che la domenica usciva con la sua stecca preferita e spesso ci salutava per ricongiungersi agli amici con cui effettuava interminabili partite nell’unico locale in cui troneggiava il biliardo, attorno al quale si alternavano veri e propri artisti di quella disciplina, cui noi giovani non avevamo ancora accesso. 

Non mi chiese mai di aiutarlo, ma non appena mi era possibile lo raggiungevo e  restavo,  affascinato, a guardarlo smontare ruote, cambiare camere d’aria, donando l’aspetto nuovo e funzionante a mezzi bisognosi di essere aggiustati, anche se giunti all’officina in condizioni disastrose e con il tempo presi a partecipare alla sua attività, compiendo piccoli lavoretti e sollevandolo dalle incombenze minori. Divenni un aiuto prezioso. Talvolta capitava che non potesse fare a meno di assentarsi per procurarsi alcuni pezzi di ricambio; mi lasciava allora a guardia del negozio, in attesa del suo ritorno. Presto fui bravo al punto tale da poter cambiare rapidamente una camera d’aria, raddrizzare una ruota un po’ sbilenca, rimettere a posto un sellino o aggiustare una catena rotta.

 L’intesa con lui era perfetta, restavo volentieri in quel posto, caratterizzato da un disordine incredibile, in cui ritrovava tutto con facilità, poiché lui sapeva sempre dove cercare un qualsiasi attrezzo, a me ignoto fino a poco tempo prima. Quando lavoravo, spesso compariva Leonice, della quale apprezzavo l’eleganza naturale e l’espressione fiera con cui tentava di mascherare un’evidente timidezza, quando si presentava a farsi ammirare, indossando la camicetta bianca e la gonna nera nella sua divisa di piccola italiana, mentre veniva a salutarci per recarsi con alcune amiche a qualche saggio ginnico, organizzato dalla scuola. 

La guardavo un po’ geloso, pensando ai ragazzi che avrebbe inevitabilmente visto ed avuto occasione di incontrare, anche se i due sessi venivano sempre tenuti rigorosamente divisi ed ogni tentativo di approccio veniva stroncato dagli occhiuti  guardiani e guardiane onnipresenti. Mentre le ragazze si esibivano con grazia  i maschi, anche loro in divisa, compivano esercizi ginnici di cui andavano orgogliosi: dovevano mostrare di saper utilizzare il moschetto, effettuare volteggi sul cavallo e infine dovevano dare prova del loro coraggio lanciandosi attraverso cerchi infuocati, mentre le  ragazze, in un altro cortile,  roteavano clave o cerchi al ritmo di un tamburello, oppure sventolavano bandiere in un ordine che doveva apparire perfetto, ragion per cui tutti erano obbligati a prove  estenuanti, che terminavano solo quando gli istruttori avevano la certezza di avere raggiunto  il risultato ottimale.

Io ero esonerato per motivi di salute, il mio stato linfatico era stato riconosciuto e confermato anche dai medici scolastici, che non mancavano mai di venire a visitarci. Appartenere alla banda mi permetteva di essere presente a tutte le manifestazioni, ma in un ruolo sicuramente più defilato e meno impegnativo di cui, peraltro, non mi lamentavo affatto.

Così, con questo stato d’animo aspettavo Leonice quando, prima di uscire di casa, passava dall’officina a prendermi, se dovevo partecipare all’addestramento anche io. Talvolta portava un buon bicchiere d’acqua fresca o, più di rado, un mezzo bicchiere di vino per Otello, distribuito con grande parsimonia, causa la penuria di numerosi generi alimentari di cui cominciavo a rendermi conto.

Eravamo sempre più poveri; Brigida si era arrangiata, e continuava a farlo al punto di riuscire, nonostante tutto, a regalarci un buon pranzo o una buona cena, utilizzando il poco che riusciva a recuperare, cercando di nascondere agli occhi miei e di Leonice  quanto grave fosse la situazione,  di cui  sempre più,  cominciavamo a vedere gli effetti attorno a noi. Mancava tutto, ma lei era molto brava a cucinare e, la sera, recuperava gli avanzi di mezzogiorno.

Quando uscivamo per recarci a scuola ci metteva fra le mani una mezza pagnotta, con un po’ di olio, un pizzico di sale ed uno spicchio d’aglio, sostituto delle vitamine, ci diceva raccomandandoci di mangiarlo tutto. Otello talvolta riusciva a preparare il pane con la poca farina di cui si trovava a disporre, magari ottenuta come pagamento di alcune riparazioni. Lo faceva seccare, poi lo tagliava a dadini da mettere nel brodo, la sera come sostituto di più ricche minestre.

Della scuola ricordo che mi mandavano sempre nell’ultimo banco, poiché gli alunni venivano sistemati per ordine di altezza e rammento gli insegnanti con le mani foderate dai guanti, da cui spuntavano la punta delle dita. Anche loro, come noi, con il cappotto addosso per il gran freddo. Anche la casa d’inverno era freddissima; ho ben presente nella memoria, quando Otello decise di far passare la canna fumaria in tutta la casa. Bucò tutte le pareti ad una altezza di poco superiore alla nostra ed allungò la canna della stufa a legna con cui riuscivamo ad ottenere un minimo tepore, aggiungendo prolunghe su prolunghe, che si era procurato da un suo amico ferrivecchi, facendole attraversare ogni stanza.

La temperatura interna aumentò di poco, ma riuscimmo comunque ad avvertire un sia pure minimo sollievo in ambienti dapprima freddissimi, anche se nei giorni più gelidi, eravamo costretti a restare con il cappotto indosso anche in casa. Nel pieno dell’inverno mi capitò più di una volta di andare a letto vestito, per rialzarmi la mattina dopo ed andare a scuola con l’abito indossato per dormire.

Brigida allora cercava di restituirgli una certa qual dignità con il ferro da stiro, la cui piastra era scaldata poggiandola direttamente sulla stufa a legna che Otello alzandosi per primo, dopo averla ripulita, aveva accesa con la poca legna di cui poteva disporre.

Le tapparelle erano in ferro, pesantissime da sollevare.  Quando nevicava, ed all’esterno tutto era gelato, Otello ci proibiva di tentare di sollevarle, poiché, sforzando, la corda si sarebbe inevitabilmente rotta.

Trascorrevamo lunghe giornate al buio, anche di giorno, chiusi in casa a tentare di difenderci dal gelo, aspettando che la temperatura cominciasse a risalire. Vedevamo blocchi di neve ghiacciata per tutto l’inverno, poi, quando questi scomparivano con il sopraggiungere del caldo, compariva  l’uomo del ghiaccio come lo chiamavamo io e Leonice.

Aveva sul suo carretto trainato da una bicicletta alcuni blocchi ghiacciati, a forma di parallelepipedo, coperti da un panno umido, su cui svolazzavano allegre le mosche e le api. Brigida ce ne annunciava la presenza, “Aiè el giassè!” esclamava imitando il dialetto piemontese, con cadenza toscana che non riusciva mascherare; quindi, lo raggiungeva vicino al suo carretto e indicava quanto gliene occorreva :”Un palet o dui palet ” e lui, con un uncino dalla punta acuminata lo incideva nel punto indicato quindi, con un abile colpo di martelletto lo spezzava fornendole la quantità richiesta.

Questa veniva portata rapidamente in casa e messa in un mobiletto dalla forma di comodino, al cui interno vi era uno scomparto zincato, dove il ghiaccio veniva riposto, confinante con un altro scomparto, più ampio, in cui venivano sistemati gli alimenti da conservare.

Era la nostra ghiacciaia, semplice ma funzionale. Gli alimenti si conservavano in buone condizioni un po’ più a lungo, specie la frutta, anche se il blocco di ghiaccio andava rimesso ogni giorno. Aspettavamo sempre, facendo in modo di assistervi, al momento in cui il giassè colpiva con il suo martelletto il blocco; questo, infatti, si sbriciolava in parte ed alcune schegge ghiacciate saltavano tutt’intorno, alcune cadendo a terra, da dove le raccoglievamo per mangiarle rapidamente, nonostante Brigida ci sgridasse, intimandoci di non farlo.

In quella sorta di comodino vi veniva conservato anche il latte che, il pomeriggio, appena tornato da scuola, correvo a prendere dalla vicina lattaia portando con me un recipiente metallico, cilindrico, la cui capacità era di un litro esatto. Nel suo negozio vi era una vasca smaltata in cui vedevo quella che a me sembrava una quantità incredibilmente abbondante di buon latte fresco. La lattaia riempiva con un mestolo il mio contenitore; capitava che, tornando verso casa, incontrassi alcuni compagni. Poggiavo a terra il prezioso latte e tiravo quattro calci al pallone con gli amici. Terminato di giocare recuperavo il recipiente che nessuno si sarebbe mai permesso di toccare e, felice, rientravo.  

A questa vita povera dovemmo comunque fare l’abitudine, mentre ci giungevano, sempre più spesso, notizie per nulla rassicuranti di quanto stava accadendo in tutta Europa, entità per noi giovani tutto sommato astratta, di cui non avevamo una vera e propria coscienza, al contrario di ciò che capita ai giovani al giorno d’oggi.

Ci veniva raccontato di gravi pericoli derivanti dall’aggressività e dalle mire espansionistiche di alcuni nostri vicini. Si diceva che la Francia e l’Inghilterra rappresentassero un grave pericolo per la nostra stabilità, ma per fortuna vi era il Duce che per tutti quegli anni ci era stato presentato come esempio di “nuovo italiano”. Un personaggio come di rado capitano nella storia, da cui sarebbe dipesa la nostra salvezza.  Pertanto, anch’io, come tutti del resto, pensavo che avrei dovuto soffrire, ma presto saremmo stati liberi da tutte le ingiustizie e da tutte le miserie cui eravamo, al momento, costretti. Presto avremmo visto la luce del nuovo impero, ed il mondo sarebbe stato migliore. Un uomo solo sarebbe stato in grado di reggere la titanica fatica di rinnovare l’Italia: Benito Mussolini. 

In questo contesto, me lo ricordo molto bene, fui costretto ad osservare Otello che, costernato, in una splendida sera, in piena estate, abbassava le persiane ed accendeva una candela, riparandone la luce con un improvvisato schermo di lamiera, mentre si stringeva a Brigida, e Leonice e veniva a sedersi vicino a me, prendendo la mia mano fra le sue, per vincere la paura. Il prefetto di Torino aveva ordinato di oscurare la città, come prova generale, in caso di bombardamento aereo. Il giorno dopo venimmo a sapere che le truppe tedesche avevano invaso la Polonia e, contestualmente, Otello aveva ricevuto l’ordine di recarsi “nel più breve tempo possibile e senza alcun indugio” al distretto militare per importanti comunicazioni che lo riguardavano. Seppi che era stato arruolato e per molti mesi nessuno ebbe sue notizie. Brigida si ingegnava a mostrarci una vita normale anche senza di lui, ma talvolta, specie la notte mi capitava di sentirla piangere.

Se già prima della partenza di Otello i soldi scarseggiavano, quando rimanemmo soli la nostra vita si fece ancor più dura, così decisi che, avendo appreso come riuscire riparare i guasti più frequenti in una bicicletta, con il consenso di Brigida, avrei preso il suo posto sperando di riuscire a guadagnare qualcosa. Cercavamo tutti di vivere nel modo più defilato possibile. Andavo a scuola solo quando potevo e, se in casa nostra il denaro scarseggiava, era scarso anche per le altre famiglie, ma non per alcune, molto vicine ai piccoli gerarchi locali del partito. Fu così che decisi, due giorni la settimana di non andare a scuola, ma restare nella bottega ed aspettare gli eventuali clienti Per evitare grane e pericolose discussioni indossavo una delle due camicie nere, le uniche rimaste che utilizzavo per i raduni a cui ero obbligato il sabato.

Il mio fare mite e gentile non evitò comunque che finissi nel mirino di giovani sbruffoni appartenenti ad alcune squadracce fasciste che imperversavano nella zona. A volte si trovavano a passare e ripassarmi davanti, mentre accovacciato su un piccolo sgabello, ero intento al mio lavoro e fingevo, spaventato, di non vederli. Un giorno, il più arrogante del gruppo mi si parò davanti. Lesto mi alzai in piedi e mi esibii in uno scattante saluto romano che lo spiazzò. Lo salutai e, dandogli del voi gli chiesi se potessi essergli utile. Non rispose subito, per un po’ restammo a guardarci, senza dire una parola, poi dopo avermi squadrato da capo a piedi, sotto lo sguardo divertito dei suoi compari, mi chiese perché non mi avesse mai visto alle adunate del sabato. Gli dissi non ero mai mancato, ed ero anche facile da individuare poiché suonavo il tamburo. Per essere più convincente glielo indicai, lo tenevo appeso al muro in alto nell’officina; presto avrei compiuto sedici anni, gli dissi con aria fiera, sarei quindi stato un avanguardista moschettiere. Sorrise e dopo aver nuovamente sollevato il braccio, mi strinse la mano.

Il giorno dopo tornò con suo padre, accompagnato da quattro ragazzi in camicia nera, tutti con un manganello bene in vista alla cintura. Era questi un uomo asciutto, scattante nella sua impeccabile divisa di perfetto fascista, che scoprii in seguito essere un esponente di spicco della Milizia Volontaria, amico di alcuni funzionari del partito. In quei momenti mi trovavo da solo ed impaurito; Brigida era andata a cercare qualcosa da mangiare, non sarebbe tornata presto, doveva in qualche modo andare a procurarsi qualcosa da mangiare e, talvolta, la ricerca si protraeva per buona parte della mattinata, mentre Leonice era a scuola. Quell’uomo volle sapere la mia età, visionò i miei documenti che, sempre tenevo a portata di mano, come mi aveva consigliato Otello. Mi chiese come mai fossi solo a quell’ora del mattino e non a scuola. Gli spiegai con calma la situazione, gli parlai di Otello e delle due donne che mi erano state affidate, dissi che, tentando di arrangiarmi, continuavo i miei studi e manifestai la mia ammirazione verso il partito che servivo, non mancando mai alle adunate, suonando nella banda, mentre pregavo fra me e me che non mi succedesse nulla.

Avevo saputo di ispezioni ad alcuni cinema da parte della milizia che aveva bloccato senza alcun preavviso gli ingressi, al pomeriggio nel corso di una proiezione, mentre all’interno vi erano alcuni giovani che, presi e identificati, erano stati inviati direttamente al fronte senza nemmeno poter avvertire le famiglie che, solo dopo qualche settimana erano venute al corrente dell’accaduto. Restò qualche istante a studiarmi, evidentemente compiaciuto della sua autorità.  Dopo avermi ispezionato a lungo, avendo notato una macchietta sul polsino della camicia nera, mi chiese di proteggerla, almeno con un grembiule. Avrebbe gradito un po’ più di rispetto per un capo di abbigliamento, simbolo del partito.

Inutile dire che mi feci procurare da Brigida una sorta di camicione nero che, da quel giorno indossai sempre, per lavorare. Uno dei ragazzi, arrivato insieme a lui, mio vicino di casa, mi chiese se potevo riparargli la gomma della bicicletta di una sua conoscente, la cui casa era nei paraggi. Me la feci portare subito e mi misi all’opera, in compagnia di quel gruppetto di persone inquietanti che tutto osservavano, senza toccare nulla, ma studiando, fin nei minimi particolari quale potesse essere il mio modo di vivere.

Gli restituii la bici in un tempo assai breve, mentre nel frattempo era passato un anziano, cui avevo regolato il giorno prima i freni, portandomi in dono due pere, chiedendomi scusa, se non poteva offrirmi altro. Visti i tristi figuri con cui ero, compresa la situazione, fece il saluto romano, contraccambiato dal gruppetto poi, lesto e ingobbito, se ne andò. Dissi al padre del giovane fascista che ci mantenevamo così, aggiungendo che molte volte sul nostro tavolo vi era cibo sufficiente per una persona sola. Con quello ci arrangiavamo. Non disse nulla, scosse appena il capo come a voler significare di aver capito. Quindi, con la rapidità con cui erano venuti, all’improvviso quei tangheri mi salutarono, come se avessero un impegno urgente altrove e, scattanti come molle, agili ed impettiti, dopo avermi appena ringraziato per il lavoro svolto, se ne andarono.

Ripresi a lavorare, misi in ordine alcuni pezzi che avrebbero potuto servirmi per riparazioni future, rientrarono dapprima Brigida, che si lamentò per aver trovato cibo scarso e assai costoso, quindi tornò anche Leonice. Sul finire del pomeriggio vidi arrivare, in bici, il figlio del fascista venuto in visita la mattina. Poggiò la bici al muro, entrò e, dopo avermi fatto il saluto d’ordinanza, mi porse un pacco che fino a quel momento non avevo notato.

Da parte di suo padre mi disse. Mentre lo ringraziavo, mi chiese se avevo tempo per potergli registrare  la ruota posteriore che oscillava, rendendo la bici instabile. Non mi feci pregare e provvidi immediatamente. Dopo di che, senza ovviamente chiedergli nulla, ci salutammo e se ne andò. Portai il pacco a Brigida, senza aprirlo e lo posai sul tavolo. Timorosa lo scartò e grande fu la nostra sorpresa quando vedemmo che vi erano un bel pezzo di carne, un pacco di sale, uno di farina ed uno di riso di ottima qualità. Quella sera ci regalammo una splendida cenetta a lume di candela nella città oscurata e, mentre commentavamo l’ordinanza del podestà, appena ascoltata alla radio, di trasformare  i  giardini della città in orti e campi da  coltivare,  per lo più a granoturco. Leonice, a udire quelle parole, intuendo le sofferenze  e i pericoli da cui le nostre vite erano minacciate, si stringeva sempre di più a me.

Soffrivo a vedere il suo disagio e allora, dopo averle presa la mano, non appena Brigida si alzò per andare nella piccola cucina, le stampai un bacio sulla guancia, cosa peraltro di cui non si lamentò affatto.

Rodolfo Alessandro Neri

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