
La tavola dei re sabaudi, il giusto compromesso tra Italia e Francia in campo gastronomico
TORINO. Il restauro ed apertura alle pubbliche visite delle cucine dei palazzi sabaudi (Palazzo reale, castelli di Racconigi e di Agliè) ha suscitato in questi ultimi anni l’interesse per i grandi pranzi di corte dei Savoia. Un elemento importante, che solo negli ultimi tempi è stato esaminato dagli storici. Basti pensare che nel 1834 il piano sotterraneo del Palazzo reale di Torino possedeva ben quattro cucine: la cucina privata del re, la cucina reale, quella del principe di Carignano e quella del conte di Robilant. Però l’attuale sistemazione risale agli anni Venti e Trenta del Novecento, quando il palazzo divenne la residenza del principe di Piemonte Umberto.

La cucina sabauda era nata nella seconda metà del Settecento. I cuochi al servizio dei re di Sardegna si erano progressivamente resi autonomi dalla cucina francese allora dominante, adattando le raffinate ricette parigine ai sapori e ai prodotti locali del Piemonte: poco per volta il vino bianco secco aveva preso il posto dello champagne, le varietà di cipolle e di cardi furono preferite a quelle francesi e i tartufi bianchi delle Langhe avevano sostituito quelli neri del Périgord. La carne di bue, indicata come l’alimento più nutriente e salutare per l’uomo, prevalse a scapito di quella di agnello o della selvaggina. Nella cucina piemontese spiccava la preferenza del burro animale per le fritture, mentre l’olio era poco usato. Sicuramente alimenti più gustosi, ma anche più ricchi di calorie.
Nel corso dell’Ottocento la tavola dei re sabaudi rappresentò sempre di più la sintesi tra Italia e Francia in campo gastronomico, dando vita ad un nutrito vivaio di cuochi. Fra di essi resta celebre la figura di Giovanni Vialardi, originario di Salussola in provincia di Biella dove nacque l’8 febbraio del 1804. Nel 1824 fu assunto come aiuto cuoco di Casa Savoia e, nel 1831, Carlo Alberto lo assunse stabilmente. Nel 1847 divenne capo cucina, titolo assimilabile all’attuale chef.
I pasti alla corte dei re di Sardegna, e re poi d’Italia, si dividevano in genere in tre ben distinte tipologie: pranzi ufficiali, buffet e colazioni private. I primi contavano anche centinaia di persone sedute ai tavoli e la cucina era assai ricercata, di gusto e livello internazionale, adatta a soddisfare le esigenze della diplomazia europea e degli ospiti stranieri, assai frequenti a corte. Iniziavano quasi sempre con un potage ed avevano uno schema fisso di portate, secondo il principio alla russa introdotto dal capocuoco Giovanni Vialardi.

Nei primi dell’Ottocento il vecchio servizio alla francese aveva infatti ceduto il passo al servizio alla russa. Il primo presentava tutte le portate sulla tavola fin dall’inizio, mettendo in primo piano la presentazione dei cibi. Il secondo, tuttora in uso, prevedeva invece che i valletti servissero ai commensali ogni portata in successione, soprattutto per farla degustare calda. Questa nuova modalità, adottata da tutte le corti europee, aveva portato all’introduzione del menu, un cartoncino posto vicino al piatto di ogni commensale, con l’elenco delle varie portate.
A partire dal Vialardi tutti i cuochi di Casa Savoia presero l’abitudine di inserire nelle liste numerosi riferimenti alla cucina regionale italiana e ai suoi prodotti d’eccellenza, pur serbando uno spazio ricorrente alle ricette del Piemonte e della Savoia, luoghi d’origine della dinastia. Al menu era abbinata una carta dei vini con bottiglie francesi e della riva tedesca del Reno, mentre per quanto riguardava i vini italiani, si prediligevano in particolare quelli piemontesi, il dolcetto, il grignolino e poi, soprattutto con Carlo Alberto, il barolo su tutti, e i vini della zona del Chianti.

I cartoncini dei menu di Casa Savoia si distinsero ben presto per una grafica pregevole ma sobria, affiancata però da un contenuto gastronomico elevatissimo e di grande interesse. La lista delle portate veniva espressa, come di consueto, in francese; semplicità ed eleganza colpivano l’ospite facendogli ricordare il pasto e l’occasione di riunione, ricevimento o ricorrenza importante. Sul menu venivano inoltre disegnati e stampati decorazioni, acronimi (FERT) e monogrammi dei regnanti, da Vittorio Emanuele II a Vittorio Emanuele III.
Al tempo della regina Margherita si aggiunsero i programmi delle esecuzioni musicali, stampati accanto alle portate. Nel 1908 re Vittorio Emanuele III impose di usare la lingua italiana sui menu, anche se già in un cartoncino del 2 ottobre 1896 veniva anticipato l’uso dei termini italiani, tranne per la voce consommé, successivamente tradotta con “consumato”, ovvero “ristretto”.
Al tempo della regina Margherita ai pranzi di gala si affiancarono sontuosi ricevimenti con buffet seguiti dai balli, per i quali ci si spostava nel salone delle feste del Quirinale o nei saloni da ballo delle altre regge. Queste cerimonie contavano diverse centinaia di invitati tra vertici dello stato, alta borghesia e nobiltà, ambasciatori e ospiti stranieri. Come nei pranzi di gala, ogni cosa doveva apparire elegante, perfetta, non doveva essere trascurato alcun dettaglio, dagli inviti ufficiali, alle livree del personale, al servizio, alla musica.
Ben più modesti erano invece i pranzi e le cene quotidiane dei Savoia, che differivano poco da quelle dei loro sudditi più benestanti. Anzi, con la salita al trono di Vittorio Emanuele III, la tavola del re e quella dell’alta borghesia del paese era sostanzialmente la stessa. Tuttavia era molto raro che i sovrani consumassero il pranzo da soli, al loro tavolo sedeva sempre qualche parente o membro della corte, sebbene in genere non si superasse mai la decina di persone. I menu dei pasti privati, composti sempre con ingredienti di prima qualità, avevano poche portate: dopo l’immancabile potage, prevedevano un piatto di pesce o di carne seguito da paté o mousse, salade e infine dolci.

Grazie alle testimonianze siamo in grado di ricostruire quali fossero le preferenze gastronomiche dei sovrani: Vittorio Emanuele II non amava i pranzi lunghi e formali, durante i quali non toccava cibo, preferendo conversare con i suoi vicini commensali. In genere mangiava prima, gustando un buon piatto di agnolotti o di tajarin, accompagnati da un bicchiere di barolo. Frequenti erano sulla sua tavola i piatti con la selvaggina al civet o alla brace, la classica bagna caoda, rigorosamente con solo aglio, olio e acciughe; ma pure le uova sode servite tritate con prezzemolo.
Il figlio Umberto I era piuttosto frugale a tavola, ma non disdegnava i gelati, per i quali aveva una grande passione. Vittorio Emanuele III, incline alla semplicità e alla sobrietà, aveva però una spiccata passione per il pollo arrosto. Nelle cucine dei suoi palazzi dominava il cuoco Amedeo Pettini (1865- 1948), celebre anche per aver collaborato con le riviste di cucina dell’epoca ed aver scritto il Manuale di Cucina e Pasticceria, pubblicato nel 1914, in cui egli espose tutta la propria esperienza come capocuoco del re.
Mauro Minola
(Tratto dal libro di Mauro Minola Savoia, Il Punto PiemonteinBancarella, 2018)