STORIE DA RACCONTARE

“Pesche e vino” in un racconto della poetessa e scrittrice Angela Donna

Ho imparato ad amare il vino amando mio padre. Un padre grande e buono – alto a proteggermi – quando mi portava a cavalluccio sulle spalle da bambina.

Contadino “zoccolone”, ci diceva, diventato marinaio perché “la terra l’è basa“. Ma – in pensione – tornato a quella terra. Senza rimpianti. E alle sue semplici abitudini.

La campagna d’origine ridimensionata ormai in un piccolo ortomontano. Eppure la stessa cura. La stessa pazienza. Lo stesso attento ritmo delle stagioni.

So con certezza che ogni volta che apro una buona bottiglia per gli amici lui è presente. E lì con me. Consuetudine usanza regola antica dell’accoglienza. Dell’ospitalità. Della gioia conviviale. Della condivisione. Del piacere della vita. Occasioni e momenti di festa intorno a una tavola imbandita  riemergono nella mia memoria-bambina dove la famiglia allargata – e riunita insieme agli amici – vede papà mescere generosamente i vini portati su dalla cantina. La piccola crota buia e fresca con le stagere colme di file di bottiglie accuratamente imbottigliate ed etichettate da lui con la luna giusta.

Più tenero un ricordo ‘da nulla’.  

D’estate – durante il periodo delle albicocche e delle pesche – rammento ancora il suo rituale quotidiano. A ogni fine pasto.Lento – ché la lentezza e l’arte della vita e ci schiude alla bellezza – ripetendo i gesti di suo padre e di generazioni di contadini prima di lui. Pesche e vino.

Misurato e solenne come un sacerdote. Sposta il suo bicchiere al centro del piatto fondo. Sceglie attento – rigirandolo palpandolo nella mano destra – un frutto maturo tra quelli appena lavati e che mia madre ha portato in tavola dentro un piccolo grilet di ceramica biancaImpugna  il suo opinel – coltello d’elezione nella tradizione delle montagne al confine francese – ormai logoro per il troppo uso e – appoggiando la lama sottile sul pollice – taglia a spicchi regolari la pesca destinata al sacrificio. Sistemata con somma cura ogni fetta – se del caso schiacciando leggermente la polpa per  trovar posto a tutte nella coppa di vetro – inizia l’ultimo atto. Il più sacro.

Il suo braccio si allungava a raggiungere il collo della bottiglia di barbera – immancabile compagna dei pasti inaugurati sempre da un’insalata dei prodotti del suo ‘orticello di guerra’ (cipollini erba di San Pietro manigot pomodori basilico timo santoreggia…).Gioiosamente il gotto di vino profumato saliva nella trasparenza del bicchiere unendosi al dolce aroma delle pesche che affogavano pian piano nel liquido sanguigno. Da lì in avanti iniziava la degustazione.

La punta del coltello ferisce spicchio dopo spicchio che – portato alla bocca – lascia colare il suo sugo rossastro e si scioglie sulle papille gustative.

“Mi ricreo!” era l’amen emesso con vigore a conclusione del cerimoniale di quella liturgia del cibo che sempre mi porto nel cuore. Insieme a mio padre.

Angela Donna

NOTA DELL’AUTRICE

Il racconto “Pesche e vino” nasce dal semplice “piatto” di fine pranzo estivo della cultura contadina piemontese che consisteva nell’intingere le pesche, appena tagliate, nel bicchiere di vino rosso (ma credo anche di altre regioni italiane poiché mi giunge notizia da amiche siciliane che anche il loro nonno aveva questa abitudine). Mi pare un principio di sangria.
Il mio legame con questa tradizione è veicolato fortemente dall’amore per mio padre (come si evince dal racconto stesso)
Oggi questo dessert l’ho riscoperto e proposto più volte con successo abbinandovi anche amaretti sbriciolati e pezzetti di cioccolato fondente (che sono poi gli ingredienti anche delle pesche ripiene altro piatto tipico piemontese).

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