
Dai subrich ai supplì e agli arancini di Montalbano
Il termine “supplì” è romanesco, ma non tutti sanno che la vera origine delle croccanti frittelle impanate nel pangrattato e ripiene di riso al sugo è tutta piemontese
La genesi della parola supplì non è chiara. C’è chi sostiene che derivi dal francese. Secondo alcuni, il termine sarebbe una contrazione della parola surprise!, una evidente espressione di meraviglia per l’inaspettata delicatezza del sapore di questo cibo da parte di un turista francese che a Roma lo avrebbe tastato per la prima volta.



Nelle tre foto: diverse interpretazioni dei supplì. Quelli di destra, che contengono mozzarella filante, sono anche chiamati “supplì al telefono”
Non lo escludo. Ma personalmente, preferisco stare dalla parte di quelli che invece ne collegano l’origine a una storpiatura romanesca del termine piemontese subrich (frittella croccante) esportato da Torino a Roma dai gestori di alcune friggitorie, al tempo del trasferimento della Corte sabauda nella Città capitolina. Troppo difficile per un Romano di Trastevere, del Testaccio, del Flaminio o dei Pairoli, pronunciare esattamente quella parola subalpina. Molto più facile romanizzarla in “supplì”.
Resta il fatto che i primi supplì, pardon i primi subrich sarebbero nati ai piedi delle Alpi, tra Torino e Vercelli, come tipico cibo riciclato, in un’epoca in cui – giustamente – nulla doveva essere sciupato. Il risotto (uno dei piatti per antonomasia della cucina piemontese), avanzato a pranzo, veniva così riproposto alla sera dopo essere stato compattato in pallottoline o più comunemente in piccoli prismi, imbevuti nell’uovo sbattuto, e impanati nel pan grattato. Poi, le frittelle venivano adagiate nell’olio bollente, lasciandole sfrigolare fino a quando non avessero assunto una nuance uniforme e dorata, avendo cura di girarle di tanto in tanto da ogni lato del parallelepipedo, per garantire la formazione di una crosta croccante e delicata.



Ideali per il pasto serale, i subrich si accompagnavano spesso con un’insalata di indivia, di salsèt (soncino) o manigòt, e qualche pomodoro, e costituivano un piatto invitante e poco pesante, ideale – appunto – per una cena allegra e conviviale.
Come spesso accade quando si esportano abitudini alimentari e ataviche ricette nate altrove, i classici subrich subalpini, ripieni solo di riso al sugo, finirono per subire alcune varianti di ingredienti e di forma. Nella città capitolina, i supplì (oltre che nella forma tradizionale di parallelepipedo) furono proposti in forma talvolta allungata e vagamente ovoidale, diventando via via una specialità tipica delle friggitorie locali e, in tempi più recenti, conquistando il podio tra i più gettonati cibi di strada. Per soddisfare palati abituati a sapori più “filanti”, si finì per aggiungere nel ripieno tocchetti di mozzarella (per ottenere l’effetto “filo del telefono”), carne tritata, frattaglie di pollo, funghi, e così via… Ma il risotto al sugo resta l’ingrediente basico e irrinunciabile di ogni supplì, anche al giorno d’oggi.
Da Roma, la fama dei subrich, o se preferite dei supplì, continuò a dilagare come un blog inarrestabile verso le regioni più meridionali, conquistando – in particolare – la Sicilia intera.
Nell’Isola di Trinacria, i “subrich-supplì” assunsero una forma più tondeggiante, e presero il nome di arancini o arancine (a seconda delle zone). Oltre all’immancabile riso, in Sicilia vengono aggiunti ripieni variegati (piselli, verdure), ingredienti dal sapore più intenso e speziato, e formaggi filanti (provola, mozzarella, ecc.). Gli arancini (eredi diretti dei subrich) – come tutti sanno – sono stati celebrati letterariamente da Andrea Camilleri, nel suo celebre romanzo “Gli arancini di Montalbano”.
Per concludere, riporto qua sotto un mio divertissement in versi piemontesi dedicati al subrich
Subrich
«Cicio-fricio così bel,
ch’it friciole sël fornel,
Ma ch’it ses, bel friciolin,
ti ch’it frise così bin?»
«’T vëdde nen ch’i son “Subrich”?
L’avìa frèid, sentìa ’l ginich.
L’é për lon che mi i friciolo:
‘nt l’euli càud adess girolo».
«Giuradisna, che calor!
It l’has piate un bel color!
Ma che bela vestimenta,
brusatà, scasi rusnenta».
«Son vansóiro d’un risòt:
cusinalo ant un fojòt.
L’han butame la camisa,
a mè dòss, pròpi precisa.
L’han cusimla mach ancheuj.
Dòp a l’han butame a meuj:
l’han paname drinta j’euv
e a l’han dime: “Vestì ’d neuv!”
Son squadrà, le quare a piomb,
come ’n prisma, nen un romb.
Da sì ’n pòch son bele cheuit:
già mi i diso: “Bon-a neuit!”
‘T sente? L’euli già a schërzin-a,
lì a soneme la manfrin-a.
Son panà, j’è pòch d fé:
son “subrich”, pront da mangé.
Mangg-me sùbit, bele càud:
mangg-me ti: fà ti ‘l colàud.
Sednò, fate na paciada
a marenda, con salada».
Sergio Donna