
Dal gergo di filande e caserme, i curiosi modi di dire piemontesi su fannulloni e scansafatiche
La Lingua piemontese è ricca e davvero pittoresca: spesso ha al suo attivo, per ogni aggettivo o modo di dire, molte varianti, una più curiosa dell’altra.
Ad esempio, per definire chi è pigro, svogliato, o pelandrone, in piemontese si può (come in italiano del resto, ma attingendo da un campionario persino più vasto) scegliere tra molte alternative, a seconda del livello di svogliatezza che a qualcuno si voglia attribuire, passando dai più lievi fiach o pìgher, ai più incisivi gargh o plandron.
Al femminile, il vocabolario propone anche l’aggettivo slandra, che oltre a ben esprimere l’innata dose di pigrizia di cui una donna sarebbe dotata, si diverte a rincarare la dose, attribuendole per giunta anche una presunta attitudine alla sregolatezza e ai facili costumi. Pregiudizi figli di una mentalità maschilista, oggi repulsa dai più, ma che continua a serpeggiare nei bassifondi dei luoghi comuni (e non solo di chi usa la Lingua piemontese, beninteso).
Ma quali sono i modi di dire relativi alla pigrizia, reale o presunta, cui ricorre spesso e volentieri la Lingua piemontese? Si tratta di un ampio ventaglio multicolore di espressioni alquanto curiose.
Queste locuzioni verbali fanno quasi tutte riferimento al verbo bate (battere): bate la lan-a, bate la loira, bate la catòlica, e bate la fiaca. E si equivalgono più o meno tutte per incisività ed efficacia.
La genesi della prima (bate la lan-a) pare attribuibile al gergo primordiale dei lanieri biellesi. Nella lavorazione della lana, al fine di trasformarla in filati, ma anche per utilizzarla come imbottitura di materassi e divani, esisteva effettivamente una fase dedicata alla “battitura”.
Lo scamato (detto anche camato) era la verga (o se preferite il bastone) che veniva utilizzata per ammorbidire la lana appena tosata, picchiandoci su; e scamatare la lana, significava proprio “batterla” con lo scamato per renderla più soffice e lavorabile. Gli artigiani che si dedicavano a questa fase della lavorazione della materia prima venivano chiamati battilana: erano dotati di uno scamato col quale colpivano la lana ritmicamente, favorendone lo sfaldamento della fibra ed aumentandone la morbidezza, anche spalmandovi sopra oli particolari.
Di per sé, battere la lana è un lavoro certamente ripetitivo e stanchevole, ma che doveva essere svolto senza perdere il ritmo, e soprattutto in modo sistematico e uniforme. Se l’operazione di scamatura veniva fatta scriteriatamente, limitandosi a battere la lana svogliatamente con un bastone, o non facendolo in modo omogeneo, allora era come non fosse stata svolta affatto: era come se quell’operaio o quell’operaia avesse girato a vuoto.
Se si doveva battere la lana, ovvero bate la lan-a, lo si doveva fare nel modo più efficace. Chissà, forse un giorno il padrone di una filanda s’era rivolto con tono severo ad una sua operaia che – un po’ troppo stanca – aveva ridotto per qualche attimo il ritmo della scamatura, dicendole: Cò ‘t fase? It fërme? Bat la lan-a! (Che fai? Ti fermi? Continua a battere la lana!). Di qui, curiosamente, l’espressione bate la lan-a finì për assumere un significato intrinseco opposto a quello letterale, identificando l’atteggiamento di chi non riusciva a tenere il ritmo della lavorazione, faceva… “flanella” (!) – a fasìa flanela – o tendeva a svolgere in modo inadeguato i suoi compiti, o addirittura a non assolverli.



Un’altra espressione che si addice ai “fagnani” è bate la fiaca (battere la fiacca). Molti etimologi concordano sulla genesi in ambito militare di questa espressione che più precisamente sarebbe nata in una Caserma in Piemonte, nella quale era di stanza un Reggimento di Fanteria.
Un tempo, i comandi militari, soprattutto in Fanteria, venivano trasmessi a colpi di tamburo. Ogni ordine era identificato da un diverso rullio di tamburo affinché potesse essere inteso dai fanti, anche se si trovavano alquanto lontano. Così, con un differente suono di tamburo, si batteva l’adunata, oppure si batteva il rancio, o ancora il silenzio, o l’ordine di attacco, e così via.
Si racconta che un fante (che non aveva udito bene il tipo di suono di tamburo pervenuto alle sue orecchie e quindi non aveva identificato il tipo di comando) si fosse rivolto ad un commilitone per chiedergli lumi. Quel fante burlone gli rispose: “A l’han batù la fiaca!” (Hanno battuto la fiacca!), e adess podoma fé gnente! (E adesso… possiamo far niente!)

Altre locuzioni di probabile matrice militare sono anche le seguenti: bate la catòlica (forse quando si celebrava la Messa da campo e si avvertivano i soldati dell’imminente funzione) e bate la Diana (ovvero quando si batteva l’ora della sveglia, in corrispondenza del sorgere della Stella di Venere).
Entrambe hanno assunto un significato diverso da quello originale, e sono diventate nel tempo modi di dire che calzano a pennello ai pigri o ai fannulloni.
Sergio Donna